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ARTIST

Claudio Valerio

TEXTS BY

Andrea Bardi

Giulia Pontoriero

COLLABORATION

Francesco Serafini

VERNISSAGE

September, 21

VIA-SENZA-VIA

21.09 - 19.10.2023

Studio la Linea Verticale riapre il 21 settembre con la prima mostra personale dell’artista Claudio Valerio. Via-Senza-Via è presentata dai testi critici di Andrea Bardi e Giulia Pontoriero e realizzata con il contributo di Francesco Serafini. La serata inaugurale è prevista per sabato 21 settembre dalle 17 alle 20 presso la nostra sede di Bologna in via dell’Oro 4B. Via-Senza-Via Inaugura il 21 settembre la nuova mostra personale di Claudio Valerio, "Via senza via", un'esperienza artistica che sfida la logica della rappresentazione tradizionale e abbraccia il paradosso dell'indefinibile. Con un approccio che nega ogni forma di significazione semiotica e narrazione convenzionale, Valerio porta il visitatore in un mondo dove l'interpretazione stessa viene sospesa, proponendo un dialogo visivo che esclude il gioco di simbolo e significato. Le opere esposte evidenziano la volontà dell'artista di rifiutare qualsiasi legame con le consuete aspettative visive o discorsive. Al contrario, Valerio esplora l'opacità del processo rappresentativo, rivendicando l'autonomia della pittura come ente a sé stante, una materia viva che non necessita di alcuna traduzione.Attraverso un uso sapiente di materiali come carbone e resina naturale, l'artista crea superfici stratificate dove l'alternanza tra porosità e levigatezza svela intuizioni figurative delicate, ma mai definitive. Il nero del carbone, in particolare, diventa lo strumento attraverso cui Valerio ricerca forme che emergono dall'oscurità, negando il principio di rassomiglianza a favore di una continua stilizzazione. La mostra "Via senza via" si configura come una riflessione sulla pittura stessa, una pratica che, per Valerio, diventa un esercizio filosofico che abbandona il concetto di conoscenza dell'oggetto per concentrarsi sull'esperienza della materia, della forma e dello stile. Questa esposizione rappresenta una dichiarazione di guerra silenziosa contro l'interpretazione forzata dell'arte, richiamando il pubblico a vivere l'opera come un'entità autonoma, libera da qualsiasi costrizione interpretativa. Un viaggio senza direzione apparente, dove il paradosso diventa protagonista e la pittura una rivelazione in continua evoluzione. Dettagli dell'evento: Titolo: Via-Senza-Via Artista: Claudio Valerio Testi di: Andrea Bardi e Giulia Pontoriero Con il contributo di: Francesco Serafini Inaugurazione: 21 Settembre 2024, ore 17:00-20:00. Durata della Mostra: 21.09-19.10.2024 Luogo: Studio la Linea Verticale, via dell’Oro 4b, Bologna Orari ordinari: Dal Mart. al Sab. 15.30-19 L'Inaugurazione: Il giorno inaugurale è previsto per sabato 21 Settembre dalle 17 alle 20. Per ulteriori informazioni: Studio la Linea Verticale | via dell’Oro 4b | Bologna | www.studiolalineaverticale.it | info@studiolalineaverticale.it | +39 3920829558 | in-fb-ig: @studiolalineaverticale Connettiti con noi: Segui gli aggiornamenti e le anteprime della mostra sui social media e condividi usando gli hashtag ufficiali: #studiolalineaverticale #viasenzavia

Press

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CRITICAL TEXT
By Andrea Bardi

CRITICAL TEXT
By Giulia Pontoriero

Natura ritratta, natura in formazione. Alcune parole per Claudio Valerio. Si potrebbe dire che la letteratura è Orfeo che torna dagli inferi; finché la letteratura cammina avanti, consapevole di condurre qualcuno, la realtà dietro di sé che sta gradualmente conducendo fuori dall'innominato - quella realtà respira, cammina, vive, si dirige verso la luce di un significato; ma quando la letteratura si volta a guardare ciò che ama, tutto ciò che rimane è un significato nominato, che è un significato morto. Roland Barthes, Letteratura e significazione Esiste, certo, un nodo che stringe a sé immagini e parole, un nesso che salda un fatto visivo a un’elaborazione verbale, generando una struttura d'insieme che risponde all'esigenza primaria di produrre discorso sull'opera, di estrarre dal silenzio di una forma muta un contenuto di conoscenza, condiviso e comunicabile. E tuttavia, quel legame non obbedisce alle logiche dell'osmosi, ai meccanismi della trascrizione puntuale tra un codice e un altro: questo accade, in linea di principio, a causa della natura non linguistica delle immagini. Troppo spesso trattate alla stregua di veri e propri testi dai deliri di onnipotenza della semiotica, e dalle illusioni parascientifiche di tutti coloro che – insistendo nel voler rintracciare un codice a tutti i costi – hanno così creduto di avere in mano la risposta oggettiva agli abusi di potere e all’irriducibile soggettivismo dell'interpretazione, le immagini hanno sempre conservato un sovrappiù di mistero, una certa quota d’enigma. Ed è proprio in virtù del loro coefficiente di riluttanza che esse continuano, e continueranno a sorprenderci, a spiazzarci, a far presa su di noi, interrogando l'occhio e stimolando, al contempo, pensieri e riflessioni di ogni genere. Riconosciuta l'impotenza della lingua, al critico non resta che la triste strada dell’omertà: una sentenza di condanna, di abolizione di un ruolo e di una funzione specifici, a cui non sento di voler sottostare. È però possibile, mi chiedo, un approccio diverso? Si può abitare il vicolo cieco, la via senza via che affaccia sul baratro del segreto, rinunciando tanto all’oltranzismo della (pseudo)ragione quanto a pericolose derive misticheggianti? In quanto critico, ho il compito di definire il perimetro della mia indagine, di inquadrare le domande da porre all’immagine e di costeggiare quel baratro. Fuor di metafora, ogni mia ipotesi di intervento è subordinata alla coscienza del limite, alla presa d’atto dell’autoreferenzialità dell’indagine. Ogni critico, quando parla, non parla che di se stesso, ragion per cui il dovere della cautela, dell’avvertenza preliminare, è presupposto necessario a ogni analisi. Le immagini, mi ripeto, non chiedono di essere tradotte; il loro nucleo essenziale giace, protetto, al riparo da ogni concettualizzazione teorica o decifrazione improvvisata. Non proverò in alcun modo, quindi, a spiegare i lavori di Claudio Valerio, né tantomeno azzarderò parafrasi poetiche in nome dell’evocazione di certe atmosfere o agitazioni sentimentali, del tutto individuali e quindi non spendibili in una prospettiva di dialogo. I dipinti di Claudio Valerio esigono rispetto, inducono la parola a ritrarsi e a mantenere una distanza di sicurezza; tuttavia, pur nell’incolmabilità del divario, è ancora possibile un margine di manovra, che consiste nella chiarificazione della processualità operativa del pittore, in un esame delle forme emergenti e in una lettura critica che, arbitraria che sia, intende in ogni caso lasciare a vista i criteri interpretativi di valutazione. In primo luogo, va dunque precisato il modus operandi dell’artista: su un supporto tradizionale, la tela, egli applica un primo fondo a carbone e resina naturale, un impasto di materia oscura che ospita successive stratificazioni ad olio. La polvere nera del carbone, per l’artista, è al contempo sintomo e simbolo della ricerca “rabdomantica” di immagini e forme che prendono consistenza dall’indistinzione del buio: “Solitamente lavoro di mattina – ha infatti dichiarato in un’intervista – quando la mente non è ancora turbata dalle noie del quotidiano ed è imbevuta dello stato di rêverie, tra il sonno e la veglia”. I profili, gli accenni di costruzione spaziale che affiorano dal sostrato di base, concretizzano una condizione liminale, uno stato di soglia in cui è difficile stabilire una temporalità precisa. Viene da chiedersi, davanti ai dipinti di Claudio Valerio, se le sue siano astrazioni, distillati quintessenziali sfrondati di ogni particolarità in nome del principio di sintesi, o piuttosto gli embrioni di una figurazione in procinto di palesarsi nell’esattezza ottica della descrizione. L’artista è già entrato in contatto con i suoi giardini danesi, o sta ancora aprendo gli occhi? Ha già bagnato i piedi nell’acquitrino, o ha intenzione di farlo? L’orto è vero – ed è perciò possibile godere del raccolto – o è solo un ricordo della memoria? Quella di Claudio Valerio è una natura ritratta – che si ritrae, dunque, sottraendosi all’assimilazione razionale dello spettatore – o, al contrario, un’entità che resta quieta, informe e in formazione, nell’attesa di un interlocutore? A simili considerazioni, l’artista non sembra prestare troppa attenzione. Il riconoscimento di una situazione familiare è un dato totalmente secondario: ciò che conta, per Claudio, è la configurazione interna del quadro, la disposizione geografica dei segni pittorici, di tutti gli elementi che contribuiscono a definire il risultato complessivo – e la presenza, sugli scaffali della libreria nel suo studio, di una raccolta di saggi di Clement Greenberg non è poi così fortuita. Sin dal primo incontro con Claudio, infatti, non ho potuto fare a meno di tenere a mente le tesi dell’alfiere del formalismo americano – in Modernist Painting (1961), Greenberg sconfessava il motto latino dell’ars est celare artem (“l’arte consiste nel celare l’arte”), rintracciando nell’opera di Manet il primo caso di esibizione plateale delle specificità mediali del quadro (“la superficie piatta, la forma del supporto, le proprietà dei pigmenti”) – o ancora la chiosa metapittorica e proto-formalista di Maurice Denis, che già nel 1890 ricordava come “un quadro – prima di diventare un cavallo nella battaglia, una donna nuda, o la raffigurazione di un qualsiasi aneddoto – è prima di tutto una superficie piana coperta di colori assemblati in base ad un determinato criterio”. Prima dei giardini – questo sembra dirci l’artista –, prima dei nidi e delle scorciatoie, c’è la scelta delle forme e dei colori che le riempiono, e ogni espediente denotativo non può offrire l’alibi perfetto per una visione distratta e approssimativa. Se la parola può, e deve tenersi a distanza, all’occhio non è concessa ingenuità alcuna. Una visione consapevole – ed è questo passaggio a definire il valore della proposta di Claudio Valerio – non deve accontentarsi di un osservatorio panottico, nell’illusione che ogni imbeccata dell’artista (il titolo) possa esaurire un’esperienza estetica, ma divenire sguardo di prossimità, penetrare nella carne dell’opera, per saggiarne il corpo, le trame e gli inganni interni ad essa. E per scoprire, ad esempio, che l’inchiesta pittorica dell’artista si regge su un’aporia, su un contratto paradossale tra pieni e vuoti che, mentre affida allo strato esterno il compito dello scavo di profondità e mansioni d’illusione prospettica, consegna all’imprimitura gli oneri dell’aggetto e del primo piano. Educare lo sguardo, addestrarne i fondamenti nella sobrietà e praticando un’economia di mezzi: al tempo della proliferazione incontrollata del visivo, questa è la lezione (est)etica di Claudio Valerio.

Esiste una volontà marcata ed estremamente incisiva nell’intraprendere una “Via senza via”. Tale impresa concretizza visivamente, difatti, l’effetto che enuncia: il trovarsi nel pieno centro di un paradosso. Nessuno, al giorno d’oggi, si troverebbe per caso o volontariamente, in una via senza via, semplicemente a causa del suo incessante rinvio associativo, in primis, ad un rapporto fra simbolo/significato, ed in secundis, ad annullamento della possibilità di adempiere – rispetto a chi lo compie – al gioco dell’azione/scopo. Pensandoci, come si potrebbe immaginare una Via senza via? Il richiamo dunque, al gioco linguistico che l’enunciato manifesta, stuzzica nel suo lettore, e poi spettatore, a rispondere a quella squisita tentazione di considerarlo ancora più radicale. E se una cosa si presenta come unica o intraducibile, scatena la bramosia di possederla. Difatti, il fondamento della nostra cultura visiva risiede principalmente nel rendere conto della natura funzionale e convenzionale di un simbolo da cui possa scaturire un linguaggio. Anche l’occhio più stanco vuole tradurre quello che sta osservando; vuole raggiungere la sua aletheia, verità. L’ipotesi contraria potrebbe, nel mondo dell’ormai Homo videns teorizzato da Sartori, non essere più una possibilità considerabile. Così come è tempo di sfatare il mito dell’occhio innocente. Difatti il titolo “Via senza via” si muove a schiocco di fioretto come una dichiarazione di guerra silenziosa contro tutta quella branca intellettuale delle discipline artistiche che ha voluto trovare significati, e che nel farlo è scesa nella pericolosa via dell’interpretazione e della ricerca contenutistica interiore, contraddicendo la natura della pittura, prima, e dell’arte stessa, poi. Entriamo, però, dentro al paradosso. “Via senza via”, come enunciato, esplicita la complementarietà dell’esistenza dell’ente attraverso il nulla, la sua negazione. E già di per sé tale reciprocità, rispetto alla filosofia occidentale, risulta essere radicale, ma non per questo improbabile. La natura primaria dell’interpretazione di un’opera d’arte è possibile solo sulla base di perseguire la verità come non-nascondimento, poiché “ciò per cui l’essere toglie ciò che lo nega (il nulla), è ciò per cui l’essere toglie ciò che lo occulta”. Ma se si ammette tale complementarietà, si accetta dunque la possibilità di non volerla disvelare. Claudio Valerio, dunque, impugna quel fioretto e avanza per la scoccata: la non traducibilità delle sue opere è resa evidente dal desiderio esplicito di negare qualsiasi forma di significazione semiotica o di struttura discorsiva dell’immagine. Nelle sue opere il processo di ancoraggio dall’enunciato verbale ad un testo visivo viene lasciato in balia di un principio di non corrispondenza. Non è ammessa alcuna interpretazione, poiché quello che ci si accinge a vedere non somiglia, né intende somigliare visivamente, ad alcun Acquitrino (2023), e la natura direzionale, curvilinea o lineare, di una qualunque via non figura alcuna Scorciatoia (2023). Dopo il fenomeno duchampiano, è stata attivata un’ulteriore, ed estenuante adozione di un approccio ironico nei confronti dell’arte, vista come manifestazione ed espressione di una condizione nichilista. L’artista si prende gioco della sua stessa opera (ma non della sua stessa pratica) e, a rafforzarne l’assunto, anche del suo fruitore. Qualunque artista che persegua tale approccio punta sulla sfera ambigua della visibilità. Mi permetto, a questo punto, di ribadire che, a sostenere questo loop temporale della morte dell’arte, sono solo coloro che ne scrivono, e certamente non gli artisti. Vero è, però, che si sta scivolando silenziosamente in un forte decadentismo culturale, che ha permesso la sovrapproduzione di opere/contenuto, brodo di giuggiole per critici avidi di gloria. Ed è per questo che i lavori, come Secondo cimitero danese (2024) o Nidi (2023), di Valerio rifuggono da una qualunque forma di narrazione. Le opere presenti evidenziano proprio l’esaltazione della dimensione opaca del processo rappresentativo, rivendicando l’attenzione sulla natura pittorica e sulla tecnica. Seppur presente ma non immediato del contenuto, poi, il fruitore può farne ciò che vuole. Guardando i lavori di Valerio, sarebbe rischioso definirli propriamente astratti, poiché il loro scopo non è l’attivazione di una stimolazione percettivo-sensoriale, o almeno non totalmente. Una qualche forma di intuizione figurativa fa la sua comparsa, anche se flebile o minimale (Veggenti,2023). Ma fra le varie motivazioni che spingono l’artista ad operare c’è la volontà esplicita di lavorare non sulla transitività dell’immagine, ma di attivare quel presupposto necessario per aprire un ampio discorso metapittorico. Ed è lui stesso a ribadire la natura filosofica della pittura. In termini linguistici si associa per definizione la pratica pittorica ad una modalità espressiva di una data percezione del sensibile, ma per Valerio la pittura diventa entica ed ontica. La pittura diventa dunque un ente, che concretizza la sua esistenza, parafrasando Sontag, nell’esperienza della materia, della forma e dello stile attraverso cui conosciamo qualcosa, più che la conoscenza di qualcosa in sé. Claudio Valerio fonda la sua pratica sulla sperimentazione materica e sull’utilizzo della stessa come espediente stratificante per mantenere disvelato il suo contenuto. È attraverso la reazione chimica fra il carbone e il pigmento pittorico che l’artista conserva la forma rabdomantica dell’immagine, poiché partendo dallo strato liminale della trama della sua superficie ne fa emergere la sua natura substanziale. L'alternanza tra porosità e levigatezza della materia plastica, che scaturisce dall'incontro tra il carbone e un pigmento stratificato grazie all'utilizzo della resina naturale, permette il manifestarsi epifanico di una forma intuita. A differenza della superficie bianca, il nero del carbone stimola Valerio nella ricerca dell’immagine, la quale abbandona il principio di rassomiglianza a favore di una maturazione stilistica. Le opere, così, risultano cariche di “stilizzazione” poiché Valerio, nella sua sublime universalità immaginifica, distingue volutamente il contenuto dalla maniera e il tema dalla forma.

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Sabato 21 Settembre ore 17-20

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21.09 - 19.10.2024

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​​Mornings: b
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